Questi sono i giorni senza volto, i giorni senza altro che sguardi smarriti dietro museruole crudeli. I giorni degli avvisi minacciosi, del terrore impalpabile, della sfiducia che ti accarezza come una matrigna malevola, della libertà fittizia.
Il corpo, privato di tutto, privato si sé, non rimane che un oggetto morto che trascini in giro a svolgere funzioni di cui ti bei, inutili quotidiane funzioni che ti sembrano, adesso, magnificamente avventurose. Ridicolo no?
Ma questo corpo immune dall’intimità, dal tatto, dalla confidenza, lo hai a lungo osservato nei giorni del niente, quasi senza volerlo. Travolta da atti ripetitivi e da nuove consuetudini, sopraffatta dal desiderio di non approfondire per non ferirti, hai perlustrato altra pelle, altre vene, altre pieghe. È stato quando inconsuetamente impastavi il pane ogni mattina alle cinque che hai imparato che lo stesso tocco amorevole ti fu un tempo riservato, eri tu la pasta su cui altre mani incameravano ossigeno e lasciavano sbocciare il lievito di te – proprio lì, sui polsi forti che hai, dove le vene si fanno verde pallido. È accaduto mentre in ginocchio pulivi la doccia che hai percepito il tutto il peso dell’abbandono, esattamente all’altezza delle reni, un macigno posato su di te, come quando hai preso un treno di ritorno da Giulianova con una valigia pesante e un bacio distratto sui binari.
E quel giorno che facevi l’ennesima doccia per passare il tempo hai notato la cicatrice sul ventre, non ci pensavi da vent’anni, e ti sei ritrovata sola in una sala operatoria piena di voci concitate da cui sei uscita con un sacco di sabbia sull’addome e un figlio sul seno.
Qualche sera dopo, davanti allo specchio, i capelli puliti e leggeri, eri in una strada alberata in un giorno preciso di maggio, quello in cui per la prima volta lui ti ha sfiorato il collo con un bacio scostando quei capelli attorcigliati e facendoti sentire che esistevi, che eri felice.
Questi sono i giorni in cui niente potrà più accadere, in cui sarai muta di baci, priva di pelle, disincarnata e viva solo nei ricordi e nei pensieri che l’anima non smette mai – e non sai se sia bene o male – di affogarti la mente. Comunque grata del passato, comunque disperata del presente. Con il conforto di questa frase (grazie F. per avermela mandata). E all’improvviso, ogni tanto, la gioia.
“Tutto ciò che abbiamo amato e perduto, che abbiamo amato moltissimo, che abbiamo amato senza sapere che un giorno ci sarebbe stato rubato, tutto ciò che, una volta perduto, non è riuscito a distruggerci, per quanto abbia insistito con forze sovrannaturali e abbia perseguito con impegno e crudeltà la nostra rovina finisce, primo o poi, per diventare gioia”. (Manuel Vilas, La gioia all’improvviso)
Imbrunisce e nove gradi ti sembrano caldo. La luce argento staglia i rami inchiostro degli alberi nudi: sembrano dita che bevono aria, o antenne che captano il senso del mondo. Se abbassi lo sguardo nella chirurgica c’è il colore dei fondali di Puglia e il tanfo del respiro stantio nel Tnt. Domani sarai Ismene, la scocciante Ismene, la remissiva ligia prudente Ismene. All’inizio ti dispiaceva, adesso invece hai preso le misure e senti quanto ti assomiglia. Antigone ti urlerà addosso e tu sarai composta e determinata, negherai il tuo aiuto al suo folle piano, e intanto tornerai alla camera di obitorio gelata dove hai visto il tuo Polinice per l’ultima volta. Piangerai dentro di te, nessuno se ne accorgerà, e penserai – come allora – che ogni cosa prenderà il proprio posto senza sconvolgere il mondo intorno. Gli alberi sapranno, e così pure l’aria intorno alla tua persona. Alla fine ti sdraierai per terra, ti coprirai con il lenzuolo profumato e lindo, e chiuderai il contatto, dentro e fuori, urlando ad Antigone “sei pazza”. Lei se ne andrà e tu dondolerai per ore avanti e indietro, totalmente muta, pensando a un rossetto, a un profumo, a un fiore.Negli anni a venire dimenticherai, pensi. Poi un giorno ti siederai al bar, sola davanti al caffè, e senza apparente motivo piangerai.
Ci sono ferite che ti scegli. Meditate, progettate, desiderate e amate. Che contengono un senso.
Ci sono momenti in cui sentì che il rito iniziatico non era ancora arrivato, e che è ora.
Non c’è un’eta, né una razionale spiegazione che un altro possa comprendere. Psichicamente si definisce come “manipolazione estrema del corpo”, o come ricerca di simbolo o di ierofania. Per me è sempre stato lì. Era solo invisibile.
Una donna magra vestita di nero entra nel portoncino di un palazzo fatiscente. Camminava sicura arrivandoci, i tacchi grossi sotto i jeans attillati, la cintura di un cappotto troppo leggero stretta in vita, un cappello elastico che sembra un pandoro da cui escono capelli arancio cupo. Il rumore dei suoi passi è bello, un metronomo veloce e deciso. Dal finestrino del passeggero ti chiedi come mai non abbia paura. Neanche tu ne avresti, di notte cammini da sola sempre allerta, sguardo in basso, furtiva.
Lí a tre metri una donna grassa, giovane, molto grassa sì. Getta una carta a terra, cammina lenta e incerta, i fuseaux sfregano fra loro dall’inguine fino alle ginocchia. Pensi che deve fare male. Un pile grigio chiaro, chioma raccolta in una crocchia, forse ha una trentina d’anni. La pelle è candida e tirata, gli occhi infossati e scontenti. Entra nel negozio etnico aperto ventiquattr’ore appena prima del portoncino. Sembra sospirare di sollievo, raccatta una manata di Mars e va verso il pakistano abbandonato su una poltrona da ufficio a cinque ruote mezza sbilenca e gli piazza in mano i quattrini. Lei ha paura, ma non degli altri. Scatta il semaforo, riparte la tua auto.
Mi spieghi di nuovo
che razza di felicità, dottore,
nel non lasciarsi ferire…
andare al proprio sonno
nell’abbandono che ripara
scegliendo di dimenticare
cancellare
non guardare
non mostrare
non voler sentire, capire, conoscere.
Mi dica ancora
se questa sigaretta, dottore,
la posso fumare su un ponte
e spegnermela addosso, urlando,
forse magari sentirò il dolore
per un motivo assurdo,
il ferirsi da sé per scontare qualcosa.
Le racconto di nuovo se vuole
dei sogni che faccio, dottore,
lei dice sempre che aggiustano le cose,
e io mi ci tuffo
come nello sterco i maiali,
desiderandoli,
affamata come un bulimico.
Che squallore, che pena, che sconcio
questo corpo morto
che non aspetta più i miei pensieri,
che ride sguaiatamente dei miei desideri.
Che pietà queste mani sempre impegnate,
fanno male e sono deboli attrici
di impasti, di gesti consueti,
di quei niente che percorre
ogni ora, ogni giorno, ogni qui,
senza un luogo dove posarsi.
Che me ne farò, mio buon dottore,
di questi occhi acuti
del non esser buona che ad osservare,
del non esser buona a niente di reale,
a niente che il mondo voglia?
Sono sempre in bilico sul precipizio
indecisa se salvarsi sia restare inerte
o squarciare il petto dei benpensanti
sanguinando davanti ai loro sguardi,
dormire ancora nel ghetto
o lanciarmi nel vuoto gelato,
ossigenato, splendente di terrore.
Ma lei lo sa, dottore, non è così?
Che abito qui, a metà, dove tutto
è consegnato al sacro, maledetto altare dell’equilibrio.
C’è un tramonto che spezza le ossa, e non importa sapere che è garantito dalle polveri sottili della città. Non si è mai visto un inverno così bello, per quanto ti stia tremendamente sui coglioni il freddo. E finalmente le maledette “feste” sono finite, mentre trascini i piedi verso non so dove. Hai visioni, pessime visioni. Te in ginocchio, sempre, a pulire con spazzole pavimenti durissimi, a montare piastrelle bianco e blu su muri di case altrui e su ordine di sadiche padrone, a cercare topolini smarriti in enormi ville settecentesche, a rifare letti e ordinare stanze piene di gradini improbabili, a fare altre disdicevoli cose.
Poi ti perdi commossa davanti a dipinti del Mantegna, a lettere del 1500 su pergamene gialle come tuorli, a film che scorrono mostrando l’incolmabilità delle differenze umane, a passi di libri che capisci e non sapresti spiegare perché, a telegiornali farciti di mostruosità in corso. Ti percuote ogni infinitesima scheggia di bellezza tanto quanto di orrore. I lampi delle parole sono a spesso come tagli di coltelli affilati, penetrano la pelle e la carne, bruciano come acido mentre arrivano ad aprire nuove scene negli occhi; ascoltare è diventato più importante che parlare. Guardare più importante che vedere. La consapevolezza è un lavoro per coraggiosi, e il coraggio non sai dove lo trovi, a volte viene da te e ti pianta un calcio in culo spostandoti di qualche centimetro avanti.
Dentro questa tua vita adesso non c’è niente che abbracci tutto questo. Tutta questa miseria del cazzo che sei. Tutta questa meraviglia del cazzo che sei. Tutto il tutto/niente che ti fa essere, piena di rabbia e gioia, di voglia e paura, di stupore e sfacelo, comunque tu sia.
Ogni tanto si apre una porta, si mostra una stanza in cui entrare e trovare qualcuno che smuove la polvere e ti fa respirare.
Ogni tanto si chiude una porta, e quello che c’era dentro sparisce e puoi riposare.
Molto spesso, senza rancore sia chiaro, lo stato del tuo cervello è un vaffanculo mondiale.
Ci si perde osservando lembi di pelle. Di certo in città non ci siamo così abituati, se non alle miserie vergognosamente sudate cui il clima ci costringe, quelle mollezze sfatte e pallide che emergono da abiti estivi penosamente stazzonati, tentativi non tanto di esposizione vanitosa quanto di goffe battaglie contro il nemico che ti riduce come un pollo lesso. Qui, fra gli ombrelloni e la battigia, la pelle sovrasta lo sguardo offrendoti una possibilità di misericordia infinita. Pelli chiarissime o scure come cuoio, armoniosi color english breakfast tea, delicati rosa maialino o violenti fucsia fluorescenti si esibiscono senza offesa, lasciando solo alla tua interpretazione il fototipo (secondo i canoni dermatologici) o, meglio, la data di arrivo/partenza, come quella che consideri comprando il latte. Su tutto, al netto del giudizio estetico che io non contemplo come misura, mi si offrono orizzonti di vita altrui. Pelle + voce + atteggiamenti, e tutto si compone in una immaginazione che, forse, tende al vero più dei fatti che in realtà mi restano sconosciuti.Impressioni che registri di primo acchito, e che poi smussi via via ascoltando brandelli di discorsi, tono e colore di voci, sguardi e gesti. Più passano gli anni e più mi abita una misericordia per l’umanità spicciola che mi sorprende, una sorta di tenerezza capace di accettare, senza nemmeno comprendere, il fascio di dolore e fatica che è installato nelle vite degli altri. Altra cosa è con me stessa, ma questa è un’altra storia.